Covid e giovani, l'esperto: "Stress continuo, cresce l’autolesionismo"

Il punto del direttore della Scuola di Psichiatria all'Università di Ferrara. "Viene meno la sensazione tipica dell’età: l’invulnerabilità"

Luigi Grassi, ordinario e direttore della Scuola di Psichiatria Unife

Luigi Grassi, ordinario e direttore della Scuola di Psichiatria Unife

Ferrara, 22 marzo 2021 - A poco più di un anno dalla caratterizzazione dell’Oms del Covid 19 come pandemia si sono susseguite una serie di denominazioni per i disturbi da stress: ansia da contagio, sindrome della capanna, ansia da limbo. Ed è quest’ultima che ora va per la maggiore, complice una perdurante condizione di sospensione vicina al vuoto. Ne abbiamo parlato con Luigi Grassi, ordinario e direttore della Scuola di Psichiatria Unife, nonché presidente della Società italiana psichiatria di consultazione.

Professor Grassi, possiamo davvero definirle ‘sindromi’? "Più che nuove sindromi si dovrebbe parlare di una condizione trasversale che assume caratteristiche diverse ma che ha un elemento comune: la minaccia e l’angoscia di morte che è primaria e primordiale, esistenzialmente determinata. Le pandemie, sia ora che in passato, così come altri eventi prolungati che minacciano l’uomo, attivano in maniera potente queste angosce, che si esprimono con l’insieme di segni e sintomi che osserviamo".

Ansia: si vedono molte pubblicità di ansiolitici da banco, il che fa presumere se non un dilagare una crescita. "Le manifestazioni di ansia sono aumentate e i molti studi sulla salute mentale in epoca Covid lo hanno indicato. Tutti ne sono coinvolti, anche se i giovani ne risentono maggiormente, mentre gli adulti e gli anziani sviluppano più spesso quadri depressivi, legati ai temi della perdita: economica, di persone care, di speranza. Vi è un aumento dell’uso di farmaci sia ansiolitici che antidepressivi, come tentativo di risposta antalgica al dolore psicologico generalizzato".

Da un recente studio Promeco si evince una crescita negli adolescenti del disagio emotivo. Un anno a parlare di morte, con tante famiglie colpite, che effetti può produrre in ragazzi che dovrebbero sentire la vita esplodere? "Vi è un arresto a quanto, in genere, nell’adolescenza viene percepito come invulnerabilità e visione di un futuro senza fine. Queste sono messe in discussioni da un duro e persistente confronto con una realtà che espone al senso del limite, della solitudine, di coartazione della libertà, di non autodeterminismo e di rischio per la vita stessa. Per quanto si possano attivare meccanismi di difesa, questi prima o poi cedono mettendo in evidenza i sintomi di ansia, nelle sue varie espressioni con indubbi rischi sulla crescita evolutiva su cui è necessario interrogarsi e agire in senso preventivo".

Ora qual è il pericolo più insidioso? "L’esaurimento delle risposte biologiche e psicologiche ad una condizione perdurante. Non è più una emergenza ma uno stato di stress persistente e usurante che notoriamente ha le ripercussioni che stiamo osservando con incremento del disagio psichico che, presente in genere nel 25-30% della popolazione, ora è a tassi assai più elevati, come manifestato anche da un aumento dei gesti autolesivi e tentativi di suicidio".

Ritorno alla normalità. Una passata di spugna o una nuova ‘normalità’? "Sarà una adattamento nuovo ai cambiamenti sociali che sono diventati parte della vita. Molto improbabile che con un colpo di spugna tutto torni come prima, per quanto l’uomo riesca a dimenticare. È noto che la normalità è un insieme di elementi legati agli eventi e ai cambiamenti, anche culturali, per cui la norma pre-pandemia era comunque diversa dalla norma di cinquanta o cento anni fa".