19 dicembre 2020 - 22:49

Ordine e disordine: se sono eccessivi rivelano un disagio

La mania per le pulizie se diventa ossessione fa pensare a un disturbo ossessivo-compulsivo, mentre la difficoltà di liberarsi degli oggetti può essere legata a uno stato di depressione. Strategie comportamentali per chi tende ad accumulare troppi ricordi

di Elena Meli

(Getty Images) (Getty Images)
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L’ordine può aiutare a stare meglio, per alcuni un po’ di disordine può essere perfino creativo: non c’è una regola ferrea, di certo però gli eccessi, da un lato e dall’altro, diventano problematici. Come sottolinea Massimo Di Giannantonio, presidente della Società Italiana di Psichiatria, «Una scrivania in cui le penne devono essere disposte tutte allo stesso modo, i lapis sempre perfettamente appuntiti e i fogli impilati al millimetro sconfina nella rigidità ossessiva. D’altro canto l’allegro disordine, tipico soprattutto negli spazi dei giovanissimi e spesso indicativo di una buona flessibilità nella gestione delle proprie cose e anche di una maggior creatività, può trasformarsi in caos incontrollato e accumulo compulsivo. Occorre insomma fare attenzione agli estremi, perché questi possono essere segno di un disagio psicologico». La mania dell’ordine a tutti i costi, per esempio, può essere indicativa di un disturbo ossessivo-compulsivo in cui, come spiega Claudio Mencacci direttore del Dipartimento di Neuroscienze all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano, «Si cerca quasi di “anestetizzare” le emozioni. Le case vuote e asettiche di chi non tiene nulla attorno a sé possono essere segno di un’altrettanta rarefazione degli affetti, la corazza esterna per evitare di affrontare la confusione portata dalla vita, dall’emotività».

L’ansia di affrontare il mondo

I rituali di pulizia, la ricerca della simmetria a tutti i costi, il fastidio dato da un oggetto fuori posto diventano il modo con cui tenere sotto controllo l’ansia di affrontare il mondo, il disagio e la tensione che scaturiscono dall’idea di essere in balia degli eventi: l’ordine diventa allora l’ossessione a cui aggrapparsi per mantenere un precario equilibrio e sentirsi con la coscienza a posto, perché ci si convince che tutto andrà bene finché c’è il pulito e il rigore attorno. All’estremo opposto c’è la patologia da accumulo, con il disordine che diventa ingestibile e compromette seriamente la salute, al punto che per venirne a capo serve l’intervento di operatori specificamente formati per ripulire ambienti degradati e pericolosi per chiunque vi metta piede.

Scala di valutazione

Per capire di che cosa si tratta viene in aiuto la scala di valutazione del disordine patologico messa a punto dall’Institute for Challenging Disorganization statunitense: prevede cinque livelli di gravità crescente e se il primo si adatta a chiunque sia solo un po’ confusionario (porte e finestre non sono ingombre di cose, non ci sono insetti o parassiti in giro né strani odori, ogni stanza viene usata per il suo scopo; vengono fatte regolarmente le pulizie domestiche e la manutenzione) già al secondo stadio è bene preoccuparsi: c’è un lieve accumulo di cose vicino alle porte o alle scale, il disordine impedisce una funzione principale di almeno una stanza (per esempio, non ci si può sedere più sul divano perché è ricoperto di cose), c’è una scarsa routine di pulizia e animali domestici che non vengono ben gestiti e sporcano. Nei tre livelli successivi l’accumulo diventa man mano fuori controllo, gli spazi abitativi non sono più utilizzabili e all’ultimo stadio in casa si trovano perfino spazzatura ed escrementi. Si tratta di un disturbo psichiatrico serio, che spesso esordisce da ragazzini con la tendenza a non disfarsi delle cose ma si manifesta appieno a cavallo della mezza età, non di rado assieme alla depressione. La pandemia potrebbe avere spinto molti su questa china: Michelle Baddeley dell’università di Sidney ha segnalato che il confinamento ha favorito la comparsa di comportamenti di accumulo per la paura di restare a corto di scorte. «C’è stato pure l’effetto-gregge: vedere tutti precipitarsi al supermercato per accaparrarsi la carta igienica ha portato ad accumularne anche chi era meno propenso a farlo e questo potrebbe far emergere la patologia in persone a rischio», conclude Baddeley.

Un aiuto dal «decluttering»

Vi siete finalmente convinti, è ora di liberarsi del disordine. È arrivato insomma il momento del decluttering, per usare un termine alla moda. Ma come riuscire nell’impresa se si è disordinati cronici ovvero, stando alla definizione dell’Institute for Challenging Disorganization, il caos attorno persiste da tempo, pregiudica la qualità di vita e si ripresenta anche dopo aver provato a venirne a capo? Il primo passo è capire perché siamo sopraffatti dagli oggetti che possediamo e che riempiono gli spazi rendendoli giocoforza caotici: quasi sempre è colpa dell’iper-attaccamento alle cose, che rende praticamente impossibile disfarsene senza un grosso sforzo. Contano tantissimo i ricordi, stando a una recente ricerca inglese: chi non butta mai niente vede i suoi oggetti come un’estensione di sé e delle sue esperienze passate, ha un attaccamento emotivo eccessivo alle cose e per questo non riesce a farne a meno. «Ognuno di noi, prendendo in mano un oggetto in casa, può essere sopraffatto dai ricordi che vi sono legati. Chi ha un problema di disordine cronico e accumulo però non riesce a mettere da parte i ricordi neppure se l’oggetto in questione è rotto o va buttato per fare spazio», spiega James Gregory, lo psicologo responsabile dello studio. «La soluzione, per chi si avvia all’accumulo patologico, potrebbe essere cercare di sostituire con altre immagini positive le memorie legate alle cose che stanno “ingolfando” la vita e gli spazi vitali del disordinato cronico: per esempio, pensando ai pranzi in famiglia o con gli amici che potremo imbandire sul tavolo del salotto quando lo avremo liberato dai soprammobili che lo invadono rendendolo inutilizzabile».

Fotografare i ricordi

Un metodo per convincere anche i più confusionari a liberarsi dell’eccesso di cose è fotografare ciò a cui teniamo per poi donarlo, anziché buttarlo: lo ha dimostrato Karen Winterich dell’Università della Pennsylvania, spiegando che chi è incoraggiato a fare foto dona dal 15 al 35% più oggetti rispetto a chi non lo fa. «Questo perché ciò da cui non vogliamo separarci è il ricordo, non l’oggetto: immortalarlo in una foto è un modo per mantenerne la memoria», dice Winterich, che ha avuto l’idea per lo studio quando si è accorta di non gettare via un paio di pantaloncini da basket dei tempi del liceo solo perché le ricordavano una vittoria importante. In media, stando alle stime, abbiamo in casa come minimo cinquanta vestiti, accessori o strumenti che non usiamo: «Donarli significa fare ordine, ma anche aiutare persone meno abbienti: per questo è meglio che buttare», precisa l’esperta. Pensare insomma che i nostri amati oggetti avranno una seconda vita con qualcun altro può essere la spinta giusta al riordino che peraltro, per funzionare, deve essere graduale: inutile sperare di venire a capo della casa intera in una volta sola, un obiettivo troppo fuori portata che può far desistere ancora prima di iniziare. Meglio occuparsi di una stanza o un mobile alla volta, godendosi il risultato: anche ricordare la sensazione di benessere che si prova una volta risistemato uno spazio, secondo gli psicologi, è un’ottima molla per continuare .

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